Paolo Paolieri

In un caldo pomeriggio dell’agosto 1976 mi vennero a trovare, nella casa in Via Lungobrana, due simpatiche ragazze sui sedici-diciassette anni, mie amiche, Giorgetta Giacomelli e Giovanna Torselli.
Giorgetta, che aveva l’iniziativa, esordì dicendo:
– Senti Paolo, siamo venute a chiederti se ci dai una mano perché avremmo intenzione di organizzare una sfilata storica per ricordare un periodo del Medioevo in cui la nostra abbazia era molto importante. Vorremmo parlare delle opere dei monaci Benedettini che bonificarono tutta questa zona dove, come sappiamo, c’erano paludi malsane. Naturalmente nella sfilata i monaci dovranno avere una posizione di primo piano. Dopo la sfilata ci potrebbe essere la cena dove si mangiano piatti tipici di quel periodo come fagioli, zuppa di pane, farinata, cacciagione. Dovrebbe essere una breve festa alla quale tutto il paese partecipa”.

L’idea di una festa paesana non mi sembrò molto originale perché in quegli anni era tutto un pullulare nei paesi di feste dell’Unità, legate al Partito Comunista e di feste dell’Amicizia, legate alla Democrazia Cristiana. Anche a Badia a Pacciana si erano fatte delle feste dell’Unità in quel pezzo di terra, che appartiene al Breschi, accanto alla scuola elementare, ora asilo. Tra l’altro, un anno la festa dell’Unità era stata fatta dentro il recinto della scuola, con le ovvie proteste dei Democratici Cristiani.
Non erano più i tempi di don Camillo e Peppone, ma il contrasto, a Badia a Pacciana era sempre molto forte. La maggioranza dei voti, alle elezioni, andava di solito alla DC, ma vi erano nel paese roccaforti del PCI come Casone dei Giacomelli, detto “La piccola Russia”.
Un anno, a conclusione della Festa, i Comunisti del paese per festeggiare il successo, organizzarono un corteo in via di Badia: tutti dietro la banda al canto:

Avanti popolo, alla riscossa,
bandiera rossa, bandiera rossa…

Una signora, dello schieramento opposto, che stava alla finestra, al loro passaggio, gridò:

– Vu faressi meglio a andà alla messa!!

La risposta che ebbe non è riferibile…

Cosciente di tutto questo, oltre che dell’estrazione familiare delle due ragazze e abbastanza malizioso osservai:
– Ma non è che quella che volete fare è “una festa dell’Amicizia travestita da festa storica?”
Giorgetta, un po’ risentita, volle precisare che lo scopo della festa era proprio quello di unificare il paese, di superare il contrasto tra le parti nel nome di una storia comune a tutti. Di creare, insomma un momento in cui tutto il paese si ritrovasse unito.
Da sempre appassionato di storia ed anche allora abbastanza lontano sia dalle sacrestie che dalle case del popolo apprezzai questa finalità, prendendomi l’impegno di fare quel che potevo.
Prima di andarsene le due ragazze mi consegnarono un fascicolo di fotocopie
– Queste le ho fatte io da un libro che ci è stato indicato a Vallombrosa dove, con un gruppo di badiani, tra i quali mio padre, Giovanni de’ Fedi e altri siamo andati a mangiare. Il bibliotecario ci ha detto qualcosa della storia di Badia e ci ha indicato il testo. In queste pagine si parla della nostra storia, dagli un’occhiata – concluse Giorgetta.

Il libro dal quale erano state fatte le fotocopie era quello di padre Emiliano Lucchesi: I monaci Benedettini Vallombrosani delle diocesi di Pistoia e Prato, scritto nel 1941.
Una parte del testo era dedicato all’opera dei monaci che al motto di “Ora et labora” avevano svolto una importantissima opera di lavoro manuale arginando i fiumi Ombrone, Brana, Bure e iniziando a bonificare questi territori tra Pistoia e Prato, allora paludosi e malsani. Una seconda parte era dedicata alla storia dell’abbazia ai primi del Trecento e vi si parlava di Ormanno Tedìci, abate del monastero di Pacciana , che nel 1322, appoggiato dai contadini divenne signore di Pistoia.

In quel caldo agosto del 1976 non potevo certamente sapere che stavo conoscendo un personaggio che avrebbe occupato gran parte della mia vita, lunghi anni di studi, ricerche riflessioni, di gioie e di dolori, comunque di grande lavoro che mi ha procurato complimenti sinceri, ma anche ingratitudine e tentativi di misconoscimento. Forse sarebbe stato meglio se avessi messo da parte quelle fotocopie e le avessi restituite a quelle ragazze accompagnate da un “ Grazie, ma fate voi”. O forse no. Ma ora è inutile parlare di “se” o di “forse”. Fatto sta che fu proprio la parte relativa all’abate a incuriosirmi maggiormente ed a farmi venire in testa una strana idea: perché non scrivere un discorso che l’abate recita alla fine di quella sfilata di cui ha parlato la Giorgetta?
Un discorso in poesia, con una rima semplice, accessibile a tutti. Ho sempre avuto una certa facilità a comporre in rima, soprattutto comica (ereditata dalla mia famiglia e che i professori a scuola non sono riusciti a soffocare…) ed il personaggio, Ormanno Tedici, mi sembrava si prestasse per come veniva descritto in quel libro.
L’autore, Emiliano Lucchesi, un abate di un monastero di Firenze, non sembrava avere molta simpatia per il suo “collega trecentesco”che considerava un uomo estremamente ambizioso, avido di potere, senza scrupoli, immorale, che aveva sfruttato il malessere sociale per prendere il potere, potere che poi non sapeva neanche gestire…e chi più ne ha più ne metta. Lucchesi, nell’affermare queste cose si rifaceva a tutta una consolidata tradizione storiografica di settecento anni, dal Trecento al Novecento, a partire dall’Anonimo delle Storie pistoiesi, Giovanni Villani Ecc. Ecc.
Mi sembrava veramente che Badia avesse da andare ben poco fiera di un personaggio del genere.., a parte il fatto che era diventato signore di Pistoia e questo poteva essere un titolo di orgoglio, più che di merito.
Ma proprio le caratteristiche del personaggio mi ispirarono un discorso comico, a tratti buffo e autoironico. Immaginai che l’abate, dopo aver preso il potere a Pistoia, tornasse a Badia e, in piazza, salutasse il suo popolo. Felice della vittoria aveva, ovviamente alzato un po’ il gomito E ,come si sa, “in vino veritas”, dicesse tutto quello che pensava. Una specie di” Girella” di Giuseppe Giusti, ante litteram!!”
La rima era molto semplice, endecasillabi a rima baciata, in volgare maccheronico, accessibili a tutti. Ne cito solo alcuni. Iniziava con la presentazione:

Mi nomo Tedici, e sono Ormanno,
di Benedetto vesto il gran panno,
scorro mea vita su questa terra,
faccio lo frate e anco la guerra.

Per parare il colpo continuava:

Taluno dicemi homo ambitioso,
politicante pericoloso,
c’è chi vorrebbe che lo mio capo
fosse reciso et appiccato.
Deh, non curate questa gentaglia
che vale meno delle frattaglia.
Oggi nel cielo un sol radioso,
saluta il populo vittorioso:
con mossa abile, fine et astuta:
Pistoia fu presa, Pistoia è caduta!!!

Seguivano versi dedicati a ringraziare chi lo aveva aiutato nell’impresa, che culminavano nelle rime:

Scorgo là in fondo il ser Di Biagio
che di Pistoia spugnò il palagio
e sulla torre di tramontana
issò bandiera della Pacciana!!!

A questo punto il popolo avrebbe dovuto esultare.
Seguiva una parte dove un “ Ormanno più intimo e preso dai fumi del vino” si confessava così:

Mi dissi: dato che in la battaglia,
non ho avuta la testa taglia
perché dov’era vento malsano
ho bel guardato di star lontano,
stolto sarei a sta’ a vedere
correre un altro a piglià il potere:
e con un balzo da gran leone
saltai per primo sul seggiolone!

Poi, prevedendo il futuro e le intenzioni del nipote, continuava:

Qualcun mi dice che il mio Filippo
oggi o domani mi fa l’inghippo
e se non cerco di fa’ attenzione,
quello mi mette pure in prigione:
ma se tradisce al nostro detto
io lo spedisco nel trabocchetto!!!

Invece, come sappiamo, nel trabocchetto rischiò di finirci l’abate ed il nipote lo spodestò.
Verso la fine, invitava tutti a festeggiare così la vittoria:

Or gli otri sgonfiansi, esca il buon vino,
sia del più nobile e sopraffino.
Ieri Badia fu acquitrino,
c’era tant’acqua, mancava il vino:
scavammo fiumi, facemmo ponti,
or chi vuol bere rimetta i conti!

Alla fine era d’obbligo, come abate, un’invocazione al suo “superiore”ed un pensiero alla sua Badia;

O Signore, non esser tremendo
col tuo servo sì empio ed orrendo
e nel tuo infinito potere
rendi vero il postremo volere:
che Badia abbia nella storia
LODE, FAMA, POTENZA e GLORIA.

Erano in tutto 86 versi che copiai su un foglio di cartoncino bristol bianco, che doveva dare l’idea di una pergamena. La mia prima preoccupazione fu di farli leggere alla Giorgetta per sentire il suo parere. La sua reazione fu molto positiva:
– Mi sembra il giusto tocco finale alla sfilata- disse.

Per questa sfilata lei, insieme a Giovanna ed altri, avevano lavorato molto, riuscendo in imprese ardue per ragazzine di sedici-diciassette anni, come quella di riuscire a convincere il vero abate di Vallombrosa a prestare ai figuranti i veri sai dei frati ed all’abate Tedìci il suo…,o quella di andare in Questura per ottenere i permessi per la sfilata e per far portare ai soldati armi pesanti come quelle vere..Tutti i vestiti e le scarpe per soldati, contadini, dame, signori ecc furono presi dalla Sartoria teatrale di Firenze; Giorgetta pensò anche a chiamare parrucchiere per curare le acconciature delle dame.
Ma c’era un problema, non facile, da risolvere. Io alla fine della sfilata, avrei dovuto leggere il discorso, ma il ruolo dell’abate era già stato assegnato a Marino de’ Masi. Come fare? Marino non se la sentiva di farlo. Alla fine si trovò questa soluzione: durante la sfilata l’abate lo faceva Marino, che si distingueva dagli altri frati per una stola bianca. Alla fine, in piazza, Marino entrava in casa dei Tuci, tra l’altro suoi suoceri, a dava il suo saio a me che mi vestivo da abate e salivo sul palco, molto vicino alla porta di casa . E così andò.
La sfilata andò benissimo. Non c’erano 300 figuranti come adesso, un po’ meno, ma ci fu una cura “filologica” dei particolari che non si è più ripetuta. Alla fine Marino mi cedette il saio ed io salii sul palco e feci un discorso che colse tutti di sorpresa, meno Giorgetta e pochi altri. L’ilarità, l’entusiasmo, gli applausi furono spontanei. Tivù Pistoia libera, nata in quel periodo e che riprese tutto il discorso, lo ritrasmise il lunedì sera alla prima cena del ringraziamento per una festa andata benissimo.
Fu messo il televisore in piazza, dove si era svolta tutta la festa e si rivide sfilata e discorso. Fu un momento di unione, di gioia di stare insieme, di felicità e di entusiasmo che in questi 35 anni credo non si sia più ripetuto. Un momento in cui la cultura ritrovò lo spirito popolare e per un attimo il paese fu quasi veramente unito.

La sfilata, da quel 1976, ha conservato lo stesso schema: i figuranti sfilano per le vie del paese con gli sbandieratori, alla fine il discorso dell’abate che da qualche anno non si fa più in piazza ma nel chiostro. Ho continuato a indossare i panni dell’abate fino al 1998, ventidue anni, dovendo escludere il 1980 quando si vestì Giampiero Gherardeschi, pace all’anima sua, e Giorgetta uscì dalla sfilata, che fu organizzata da altri. Ogni anno ho cambiato discorso, ho usato l’ottava, un metro molto più serio ed impegnativo. Questo perché stavo portando avanti le ricerche e la rivalutazione storica di Ormanno Tedìci, faticose ricerche in biblioteche e archivi svolte allora soltanto da me e non “da alcuni abitanti di Badia a Pacciana” come qualcuno ha scritto.

Nel 1999 sono uscito dai panni di Ormanno ed è tornato ad essere abate Marino de’ Masi, il quale, con quel tatto e quella sensibilità che lo distinguevano, molto rari in queste terre, mi chiese:
– Non te ne offendi mica se lo rifaccio io?
Dopo Marino, morto nel 2001, l’abate è stato interpretato da Alfredo Vettori e poi da Giuseppe Golisano, fino a tutt’oggi.

A questo punto qualcuno si chiederà:
– …e monsignor Orfeo Melani? Perché in queste pagine non si cita per niente, visto che è stato detto ed anche scritto che fu lui il promotore della festa?
La risposta è molto semplice. Monsignor Orfeo Melani ha avuto molti altri importanti meriti in questo paese, ma con l’idea originaria della festa non c’entra niente. Il suo unico merito, pace all’anima sua, fu quello di non mettere ostacoli.
Era da pochi mesi parroco effettivo di Badia a Pacciana, se avesse detto “No!” non ci sarebbe stato niente da fare. In un paese che si chiama Badia, cioè un “Paese abbazia” dove nel Medioevo comandava l’abate e oggi, almeno sulla zona di competenza della chiesa dove veniva fatta la festa ed anche un po’ più in là, comanda il prete, non si può fare qualcosa contro la sua volontà. E poi contro un Monsignore…battaglia persa in partenza.
Monsignor Melani, lasciò fare. E non fu poco.

Paolo Paolieri

I Commenti sono chiusi